Il cannibalismo della ragione. Claudia Mazzola per Palermo Felicissima

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Il cannibalismo della ragione. Claudia Mazzola per Palermo Felicissima.

Ancora un racconto di Claudia Mazzola: non credo servano ulteriori parole.

Il racconto è stato pubblicato nel volume 2 della raccolta di scrittori siciliani del 2021.

Foto di Masha Raymers

Immobile su una sedia
nella quiete della mia cucina,
aspetto con pazienza
che il respiro si plachi,
che il mio cuore rallenti,
cercando cosa resta di me.
In bilico tra il tuo universo
ed il mio,
hai scandito le tue ragioni
gridando
con un accento di bimba
per sovrastare
quel pianto
che ti costava fatica,
ed io ho lasciato
che il mio silenzio percorresse
le linee d’aria ai lati
della tua testa
senza opporre resistenza.
Adesso,
che sento essere
prossima all’implosione,
mi volto a guardare
il cielo livido alle mie spalle,
i vetri riflettono
il passaggio delle nuvole,
ed io sento
l’eco delle tue parole
radermi l’anima
con pezzi di vetro.
Quanto hai appena descritto
è il ritratto di una donna
che non conosco
estranea e passiva.
Quanto hai appena demolito
è Il tempo
di una vita intera dedicato
a garantire a te
una presenza che ritenevo
fondante, inamovibile.
Dal mio stesso
senso del dovere,

obbligata.
La certezza metodica
che ho sviluppato
negli anni si è rivelata
aberrante ed imperativa
al tuo essere differente,
alieno
alla mia persona.
Un universo felpato
in cui ti sentivi confinare
ogni giorno di più,
tra pentimenti e abiure,
e che io scambiavo
per capricci del momento.
Ho in bocca
un retrogusto
di incongruenza
che sembra
dar voce alle tue ragioni,
e nelle orecchie,
risuona
l’eco della risata di colei
che sono stata un tempo,
e che,
per assurdo,
ti somiglia tanto.

Foto di Thiago Matos


Qualcosa
nelle tue parole
dischiude l’anima
ad un dolore sordo,
l’incrinatura
che manda in pezzi
lo specchio,
e d’un tratto capisco.
Sono arrivata fin qui
per tecnica e mestiere,
ligia al dovere
e pavida davanti al l’istinto.
Ho seguito logiche di giustizia
ed in fede a quei codici,
ho lasciato
che si congelasse in me
quella consapevolezza
che doveva
preservarmi in vita,
l’istinto periferico
di un individualismo sano,
cui ho permesso
disfarsi
in aliti di nebbia.
Un senso di vertigine mescola aromi
con veleni.
Alla ricerca
di una identità
della differenza
, realizzo in me
una sorta di
assenza di movimento,
una oscurità favolosa
che altera
le ombre negli angoli.
Miseria e desolazione irrompono
con fragore di guerra,
il pensiero quieto
che disseca la realtà
rivela con tutta calma
la metafora
del mio fallimento.
Sono stata solo madre,
mai persona,
consentendo a direzioni
socialmente plausibili
di accendere
ogni mia decisione,
incastonando
il tuo destino ed il mio
nella filigrana azzurra
di una ninna nanna.
Adesso
chi ero e chi sono
sembrano fronteggiarsi
come sillogismi
di una stessa catena
priva di senso.
Mi basta chiudere gli occhi
un momento
per rivedere a ritroso
i miei tentativi
di compensazione
con il mondo smarrirsi
come pesci,
distratti e gentili,
senza più
remissione o pretesti.
Nel mio petto
si aprono abissi
in cui brucia come fosforo il peso delle tue parole
L’ombra spessa
del rimorso mi assale,
ed il mondo che abitavo
d’un tratto viene meno,
disgregandosi,
sotto la spinta corrosiva
delle tue ragioni.
I miei trucchi
da illusionista
sono ormai esauriti
e la botola sotto il palco
è spalancata e vuota,
nessun suggerimento sembra riuscire più
ad indirizzare
il mio ruolo di madre,
e la spregiudicatezza
nell’ improvvisare consigli adesso è ridotta a poco più
che un sussurro.
Rotto l’argine
della propria identità
qualcosa
sembra interrompere
la presenza del mondo
così
i dettami consolidati
che stabilivano
regole di giustizia
hanno smarrito
il loro stesso alfabeto.
Esposto ,
nudo
e senza più argomenti, anche l’amore
si arrende
ad un presente
eccentrico
e paradossale.
Accade allora che i sogni si infrangano
su confini dove si irrigidiscono muri
metafore civili
tra il bisogno
di relazione ed il desiderio.
Scossa dalle fondamenta
la cessione
inconsapevole e passiva
della libertà
era stata d improvviso
spazzata via da una forza perturbatrice che aveva dissolto ogni arroccamento.

Mi trovavo allora in un punto di grande purezza,
in cui qualcosa dentro me
rifuggiva l’archetipo di madre
La percezione stessa di sentirmi ostaggio
di un ordine fariseo,
sembrava rivendicare in me
un identità scucita
che mi obbligava
ad una fuga dal solare,
strappandomi via
dal ruolo misero del siniscalco,
consegnandomi
ad equilibri scompaginati
ma liberi dall’obbligo moralista
ad un etica immanente.

Foto di cottonbro – pexels


Così la profanazione efferata e sanguinaria della amore
aveva detonato quell’ideale di famiglia in cui avevo immaginato di crescerti,
dando forma ad un tentativo autistico di contenere il dolore
perché questo restasse incastrato dietro i miei occhi asciutti,
mentre in me si andava coagulando
un senso di responsabilità
misto a colpa
per non avere
attutito il disastro,
per avere osato
reagire al mondo,
diventato per me
ingovernabile ed ostile.
Inseguendo fantasmi
di purezza.
Ho pianificato allora
di sublimarmi
sia madre che padre,
santificando
in un dualismo patologico
la rivendicazione
di un ideale
di disobbedienza
al conforme.
La ripetizione all’infinito
di un’ansia di fuga,
l’impulso irresistibile
di attraversare il cristallo
e ritrovarmi
in qualcosa
che fosse diverso
dalla miseria
del mio quotidiano,
avevano risvegliato in me
la lussuria
delle intenzioni sconsigliabili, una sorta di
perversità palatina
che mi spingeva
ad andare contro
logiche
di convinzioni
e cieca obbedienza.
Ma il confine che regola il bisogno
secondo i canoni del desiderio
non ha misure stabili
come la musica e l architettura,
e con il passare del tempo aumenta il rischio
di lasciare dietro se
le verità emotive.
In un mondo
dove la razionalità
prevale l istinto
non esiste giustizia
ma solo la logica,
ed il peso contundente della legge
piega ogni slancio, conformandolo
ad un ritmo più quieto.
Se costretta ad una scelta una madre
legifera, aforizza ed infine dissolve comunque
gli abissi della propria ambizione
tenendo fede alla assoluto dell amore.
Mi domando allora a cosa possa essere servito
tutto questo dolore,
quello stesso
che oggi tu mi hai schiaffeggiato addosso.
In pieno cannibalismo
della ragione,
esamino
assente da me stessa
il tavolo davanti a me
con ancora i resti di
un pranzo non consumato mentre ripasso
con zelo
quell’ansia di vita
vissuta ai margini
di me stessa,
passata a dissimulare
la via della tolleranza, tormentata
dal dubbio intelligente, prigioniera
dell alternanza sentimentale. Non resta che
niente, niente, niente.
Eppure ti rivedo come fosse ieri
piccola tra le mie braccia,
quando il dolore che mi attanagliava le viscere
aveva iniziato a splendere sulle tue palpebre chiuse
come fosse sole e spuma,
e l amore sbocciava
mentre imparavo i tuoi lineamenti,
arandoti come fossi terra,
abilitandoti a riconoscere il mondo.
Ho fantasticato allora ogni genere di futuro
atto a sancire
postulati di complicità e rispetto,
ricami che credevo preziosi
sulla divisa che mi ero cucita addosso.
Ho inseguito la gioia
con occhi di vetro, aggrappata
al velluto dell esistenza, perseguendo
una economia di sopravvivenza, contrabbandando
la felicità con l obbedienza
e tutto ciò che resta è compreso nell’ordine
mesto e programmato
che intercorre la distanza
tra i piatti e le posate sul mio tavolo da cucina.

Foto di Sally Kiknadze – da pexels


Immobile su una sedia
nella quiete della mia cucina
mi fermo sul confine
che delimita il mio mondo,
mentre ripasso a memoria
le coordinate del viaggio.
Il cammino picaresco che mi ha spinta qui,
in equilibrio sopra lo strapiombo
sotto cieli tersi, in una vertiginosa dimensione di libertà.
Qui aspetterò il tuo perdono,
pianificando ordine nel tempo che ho perduto.
Cospargerò d’unguento le pause in cui hai sofferto
Aspetterò cullandomi nell’illusione moralista
di aver comunque scelto te
e quando sarai pronta, guarderò fissa le tue pupille attente,
riscattandomi dalle contingenze
che nessun arsenale dialettico potrebbe giustificare
con un pensiero buono
sopra fiumi di arcobaleni dipinti.

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