Mistero sull’Etna, di Gabriella Cuscinà.
Spero che le cose che scrivo e i fatti che narro valgano come testimonianza per le autorità giudiziarie e per i medici dell’ospedale psichiatrico.
Sono una giovane universitaria e non sarò creduta, ma posso assicurare che quanto affermo in queste pagine risponde tutto a verità sacrosanta.
Il mio paese si trova sulle pendici dell’Etna e purtroppo le eruzioni del vulcano sono frequenti, terribili, quindi esso rimane isolato e nessuno vi si avventura spesso. Gli spettacoli offerti dalla lava sono stupendi, quei fiumi di fuoco sono incredibili!
Io li vedo da una finestra della mia casa, lontani e magnetici, con esplosioni alterne che fanno pensare a giochi d’artificio.
Tutto cominciò proprio in una notte in cui si udivano i boati tremendi del vulcano. I lapilli erano lanciati in cielo con fragore. Era pieno inverno ed era caduta la neve. Una notte di gelo terribile e stavo per mettermi a letto, quando udii una sorta di grido roco e animalesco. Rimasi immobile, interdetta. Di nuovo vi fu quell’urlo tremendo, come l’ululato di un lupo. Corsi nella stanza dei miei due fratellini che sono molto piccoli e temevo le loro reazioni di paura. I miei genitori non erano presenti perché si trovavano a Catania.
Il giorno dopo, si seppe della morte del pastore Gaspare, un decesso inspiegabile perché era stato trovato davanti alla sua povera casa come assalito da un lupo.
Ci fu in seguito un altro episodio strano nel mio paese: i bambini del signor Campisi affermarono di aver visto una sera, aggirarsi attorno alla loro casa, uno strano figuro che si lamentava e si contorceva.
Poi una notte successiva, lo stesso personaggio fu avvistato nei pressi di un’altra casa. Appena cercarono d’inseguirlo, si volatilizzò. La cosa più strana fu la coincidenza che notai tra codesti avvistamenti e altri misteriosi fatti che intanto accadevano nella nostra casa. Per esempio, ogni tanto sparivano i giocattoli dei miei fratellini. Essi piangevano e li cercavano fintanto che non li ritrovavano distrutti dentro il garage. Ma chi era stato? Com’era successo?
Un’avventura inspiegabile mi capitò a Catania, mentre dal paese stavo andando all’università con il pullman. Ero scesa e a un tratto vidi qualcuno: un individuo con un lungo cappotto grigio e un logoro cappello in testa che mi seguiva. Aveva in mano qualcosa che mi parve un temperino. La sua attenzione era concentrata su di me, anche se teneva il volto abbassato e quasi interamente nascosto dal berretto.
Allarmata presi a camminare più in fretta. Quel quartiere è scarsamente popolato e i passanti erano pochi.
Il rumore delle mie scarpe echeggiava sul selciato, il mio cuore batteva forte. Udivo l’eco dei passi dello sconosciuto, ma non osavo voltarmi. Cominciai a correre e mi resi conto che anche lui correva. A un certo punto, mi raggiunse e sentii la stretta della sua mano sulla spalla. Il terrore ebbe il sopravvento e svenni.
Quando rinvenni, c’era mio padre chino su di me. Era agitato e mi chiedeva cosa fosse successo. Il suo capo era scoperto ma, incredibile a dirsi, indossava il medesimo cappotto dell’uomo in grigio. Mi sollevai e spalancai gli occhi: -Papà cosa fai qui?
-Cosa ci fai tu piuttosto?- fu la risposta perentoria.
Non mi spiegò mai come si trovasse lì in quel preciso momento. Ricordo solo che aveva un aspetto diverso e strano. Appena mi riebbi del tutto, gli raccontai concitata che ero stata vittima di un’aggressione. Mi disse che era stato solo un abbaglio dovuto a un malessere e che non mi dovevo più preoccupare.
-Ma papà che dici! Mi ha aggredito! Sono svenuta per la paura. –
Così dicendo avevo osservato con curiosità quel cappotto che non gli avevo mai visto. Mi aveva ricondotto a casa sostenendo che non stavo bene e che per quel giorno non dovevo andare all’università.
Quella fu la prima di una lunga serie di circostanze inquietanti.
Alcuni giorni dopo la famosa aggressione, ero rimasta a casa a studiare. Non c’era nessuno poiché i bambini erano a scuola e mia madre si era recata a fare la spesa. Udii mio padre rientrare più presto del solito e aveva un aspetto spaventoso. Gli occhi vitrei e spalancati, le mani tremanti e il colletto della camicia strappato. Quando si accorse che ero in casa, ebbe un sobbalzo e cominciò a indietreggiare.
-Papà cos’hai? Ti senti male? –
Scappò via come invasato. Allarmata, lo cercai a lungo, ma non c’era.
Quando tornai, i miei libri erano spariti e la camera era sossopra. Chi era stato?
Come se non bastasse, qualche giorno dopo fu trovato il mio cane sgozzato e provai un dolore tremendo. Continuavo a vivere come in un incubo perché mi rendevo conto che tutto ciò era inspiegabile.
Ne parlai con mia madre che mi rispose di non riuscire a capire cosa stesse accadendo nella nostra famiglia.
L’Etna in quei giorni era più infuriato che mai. Nuovi crateri si erano formati e la lava si era aperta nuovi varchi. Per fortuna il nostro paese si trova a molta distanza dai nuovi crateri.
Una notte ricordo di aver visto, lontana, la figura di un uomo che si stagliava nel buio, illuminata solo dalla luce della lava. Era un’immagine impressionante e quell’individuo aveva le braccia spalancate e si contorceva. Trascorsi una notte insonne e questo mi lasciò impreparata ad affrontare quello che avvenne il giorno seguente. Stavo studiando e udii mia madre gridare che il più piccolo dei miei fratelli era scomparso: -L’avevo lasciato che giocava nella sua stanzetta!
Guardai l’altro mio fratello: -Papà dov’è?
-E’ uscito mezz’ora fa, – rispose.
Chiamammo disperatamente il bambino e lo cercammo ovunque. Nel giardino attorno alla casa non c’era. Cominciai a chiedere ai vicini, ma nessuno l’aveva visto.
Le ombre della sera già avvolgevano ogni cosa e il vulcano tuonava furioso, come presago di sventure. Mi sentivo attanagliata da un’angoscia incredibile.
Quando ormai mia madre stava telefonando alla polizia, udimmo un pianto provenire dal garage. La saracinesca era abbassata, ma i lamenti del mio fratellino erano distinti e chiari. Lo trovammo rannicchiato contro il muro. Era scosso da singhiozzi convulsi e sembrava in preda ad uno shock.
-Ma perché ti sei chiuso qui dentro?- chiese mia madre scuotendolo e abbracciandolo.
-E’ stato lui! E’ stato l’uomo grigio, – fu la risposta.
-Che dici! Non c’è nessun uomo grigio. Perché sei entrato nel garage?
-Mi ha portato lui. Mi voleva ammazzare! Poi si è fermato, è scappato e ha chiuso la saracinesca.
Aveva ripreso a piangere convulsamente e tremava. Mia madre cercò di calmarlo e consolarlo. Dopo che lo ebbe portato a letto, io gli chiesi:-Lo hai visto? Perché dici che era l’uomo grigio?
-Perché aveva un vestito grigio, ma non si faceva vedere in faccia.
-Lascialo stare in pace. Ora deve dormire, – intervenne mia madre.
Avevo un’idea fissa nella mente e la corrodeva come un tarlo: Licantropia!
All’università studio Psicologia e proprio in quei giorni stavo preparando un esame sulle patologie nervose. La Licantropia è un’affezione assai rara di natura isterica e gli individui che ne sono affetti si sentono spinti a simulare il comportamento del lupo.
Possibile? Era mai possibile che mio padre fosse diventato licantropo? Questo sospetto mi faceva venire i brividi, ma non potevo escluderlo.
Sto scrivendo queste cose affinché si comprenda che egli è innocente e che ciò che ha commesso, l’ha fatto senza rendersene conto, senza piena avvertenza e deliberato consenso. L’ha fatto nei momenti di crisi, quando la sua personalità si sdoppiava e diveniva furioso, incontrollabile. Eppure forse l’amore per noi lo bloccava e ci ha salvato.
Ricordo il momento atroce in cui mi afferrò, in preda a un attacco di Licantropia. Non era più lui. I suoi occhi tanto buoni erano trasformati. Erano feroci, fuori dalle orbite! La bocca contorta e le braccia spalancate. Povero papà mio! Eravamo soli.
Terrorizzata, lo chiamavo, lo supplicavo di lasciarmi stare: -Papà sono io! Papà guardami. Lasciami, non farmi male!
Portò anche me in garage e prese la scure con cui taglia i rami degli alberi.
Compresi che non ragionava assolutamente e pensai che fosse venuta la mia ultima ora. Gridai atterrita e cercai di guardarlo negli occhi.
Fu proprio allora, quando le sue pupille fissarono le mie, che uno strano guizzo attraversò il suo sguardo.
Con uno scarto, mi buttò fuori dalla rimessa e chiuse la saracinesca. Si rinchiuse dentro. Urlava, ma mi aveva salvato da se stesso. L’amore era stato più forte della sua stessa pazzia. Ero scappata ed ero corsa dai Carabinieri a chiedere aiuto.
In fondo era ciò che avrebbe voluto.