so’ juto stocco e so’ turnato baccalà, di Marcello Mussolìn
dove si parla di pesci, storie, vichinghi e brandacujun
Le serate a casa del mio amico Massimo sono sempre pregne di chiacchere e cultura. Non è che “pregna” mi piaccia molto, mi ricorda sgradevoli termini utilizzati per indicare animali in attesa dei lori cuccioli, ma se l’ha pure usato Dante parlando della Madonna (Così fu fatta la Vergine pregna), perché non posso usarlo pure io? “Che” poi mi serve per stabilire un legame con “impregnato”, participio/aggettivo che ritroveremo dopo… spero.
Ah, già, Massimo. Dopo aver parlato dei massimi sistemi, Trump, Covid, ricette di cucina, il discorso non poteva che cadere che sul Baccalà.
Naturalmente.
Ora, per me – che ho cominciato a mangiarlo da relativamente poco – baccalà era il termine poco amichevole che Peter Pan rivolge a Capitan Uncino in uno del loro epici duelli. Ricordo ancora – ridendo – quando l’allora piccolissimo mio figlio maggiore, durante il battesimo del fratellino, nel sacro silenzio della messa apostrofò proprio con uno squillante “Baccalà” l’incolpevole officiante.
Massimo, dunque, lui veneziano, sosteneva di una certa comunanza tra alcune ricette genovesi e quelle palermitane, intuendo uno scambio di amorosi sensi probabilmente risalente ad alcuni secoli addietro, quando i nostri mari erano solcati da velieri e alcuni cibi erano merci di scambio.
Intuizione felice. Tutta la storia del baccalà è legata agli scambi.
La leggenda stessa del baccalà alla vicentina racconta di come un navigatore veneziano, il capitano Piero Querini, partito da Venezia il 25 aprile del 1431 per commerciare spezie, naufragò su uno scoglio disabitato delle Isole Lofoten.
Qui, trovò una particolare lavorazione del merluzzo, che veniva lasciato asciugare al vento freddo e secco del nord tanto da renderlo un “bastone” e pesce bastone, stock fish o pesce stocco (oddio, non so come si dica in Norvegese ma so – perché me lo ha detto il signor google – che in fiammingo si dice “kabeljaw”) fu il nome che da lì in avanti si usò per chiamare questo pesce.
Lo so che vi state domandando cosa ci stesse a fare nel 1431 una nave veneziana in acque della Norvegia e come mai in uno “scoglio deserto delle isole Lofoten” ci fosse un fiorente “rivugghio” di pesce stocco, ma questa è la storia e non la vogliamo cambiare.
Sta di fatto che al suo ritorno a Venezia il capitano portò con sé una grossa quantità di pesci stocco che furono così tanto apprezzati dai Veneti che – per l’appunto – il baccalà alla vicentina è diventato uno dei piatti tipici della Regione.
Sì, perché a Vicenza lo chiamano baccalà, ma in realtà è lo stoccafisso. La confusione c’è. I “malupinsanti” direbbero che la colpa è del grappino a digiuno, ma certo io non uso queste banalità… Sta di fatto che il baccalà è un’altra cosa , ha una preparazione diversa.
Chiaramente l’origine è la stessa. I norvegesi iniziarono ad utilizzare il pesce come merce di scambio, e giunti nel mediterraneo trasferirono le loro competenze agli abitanti delle città costiere sedi dei grandi porti.
Genova, ma anche le città del Nord della Spagna e del sud della Francia.
In realtà sembra che in Sicilia lo stoccafisso fosse già conosciuto ai tempi dei Normanni, circa 400 anni prima di Querini, che lo importarono dal Nord quando giunsero nell’isola nel 1061.
E probabilmente da questa parte del Mediterraneo le cose sono andate così, mentre sul lato Adriatico, legato ai commerci della Repubblica Marinara di Venezia, il maggior consumo è proprio quello dello stoccafisso.
In ogni caso, vichinghi, norvegesi, veneziani, genovesi in qualche modo si nutrivano dello stesso pesce, il merluzzo nordico, seppur conservato in modo diverso.
Infatti i pescatori del Mediterraneo, probabilmente influenzati anche dagli scambi con il Portogallo dove, tuttora, il Bacalhau è piatto nazionale, cominciarono a “trattare” il pesce con una tecnica differente, quella della salatura, dal momento che le temperature del mediterraneo o della costa atlantica sono certamente superiori a quelle della Norvegia, ed anche il tasso di umidità è diverso.
Insomma, da queste parti il pesce viene salato e lasciato essiccare, tanto che, per definirlo baccalà, deve essere impregnato per almeno il 18% da sale.
Ed ho usato impregnato. Ci ho messo millemila parole e fatto ghirigori con le parole ma alla fine ce l’ho fatta.
Non vi tedio più:
Da Genova a Palermo, da Marsiglia a Napoli, da Palermo in Spagna: le navi dell’epoca cominciarono a portare a bordo il baccalà, per commerci più locali o lo stoccafisso – se navi provenienti dai porti del Nord Europa, perché cibo comunque sempre disponibile o perché utilissima merce di scambio, apprezzata in tutto il Mediterraneo.
Spezie e sale le principali contropartite, tanto che in Sicilia sullo stesso lato del Tirreno, ancorchè ad angoli opposti, Trapani – esportatore di sale verso i paesi del nord in cambio di merluzzo salato – ha una tradizione legata al baccalà, mentre Messina, porto di transito per le navi – olandesi soprattutto – che andavano verso oriente a commerciare spezie, gode del suo pescestocco alla Ghiotta.
Insomma, per finire con la domanda del mio amico Massimo… a Genova la ricetta tradizionale si chiama “brandacujun“ . Nome strano, composto da Branda e Cujun. Sembra che “branda” derivi dal verbo provenzale brandare, cioè “scuotere”, in questo caso la pentola. Attività che, vista la ripetitività e l’assenza di sforzo intellettivo, in genere veniva fatta svolgere al più ingenuo di tutti. Il “cujun”, appunto.
Alla fine, direte voi, ma a noi che … ?
Niente, ma mi pareva grazioso e poi capirete perché da sempre vado dicendo che, se si vuole realizzare una vera unione europea, la base deve essere il cibo, melenzane e baccalà soprattutto, e non i soldi.
Ah. L’8 dicembre si avvicina. Buon baccalà allo sfincione a tutti !
Ah. Ah. Se venite a Palermo, non comprate le banane e non dite ad una donna che vi piace u baccalaru. Potrebbe fraintendere…
Baci, Marcello.