CARI RAGAZZI, di Agata Bazzi
Il 25 gennaio del 2020 ci siamo incontrati al vostro Istituto Damiani Almeyda-Crispi di Palermo e, insieme, abbiamo parlato del libro La luce è là.
Tra gennaio e febbraio dell’anno scorso ho incontrato moltissimi ragazzi e molte decine di professori appassionati e intelligenti. È stato un periodo speciale per me, poco abituata ai ragazzi, ai numeri, alle migliaia di occhi svegli, alle domande interessate, a volte provocatorie, sempre nuove. L’occasione di presentare il romanzo si è incrociata con la ricorrenza della “Giornata della Memoria”, allargando i temi e approfondendo le riflessioni.
Adesso la vostra professoressa Rosanna Crivello mi scrive: “Nella nostra scuola è ancora molto vivo il ricordo dell’incontro con te per la presentazione/dibattito sul tuo libro “La luce è là”.
Se hai anche tu qualche ricordo, impressione di quel giorno di gennaio dello scorso anno avrei molto piacere se ti sentissi di scrivere qualcosa per i nostri studenti. Sarebbe un’ottima occasione per ribadire con forza i concetti espressi allora. In un momento particolarmente delicato come questo in cui viviamo, parole come le tue di contrasto alla violenza, all’odio e, prima di ogni cosa, all’ignoranza possono essere da stimolo.”
Ricorre di nuovo la “Giornata della Memoria”, ma è cambiato tutto. Nessuno avrebbe potuto immaginare, dodici mesi fa, la profonda e definitiva crisi che la pandemia avrebbe portato nel nostro mondo, che sembrava così stabile e conosciuto.
Oggi molto più di prima la parola memoria è inscindibile dalla parola futuro.
Ho voluto raccontare la storia della famiglia Ahrens soltanto perché pensavo che fosse bella. Man mano che passa il tempo e le cose cambiano, spero che possa essere anche utile, che offra qualche insegnamento che aiuti a costruire il domani.
Nel 1988 Italo Calvino pubblicò “Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio.” Era la sua risposta alla domanda “Cosa portiamo con noi nel 2000?”
Oggi è diventato davvero importante porci una domanda solo apparentemente simile “Cosa portiamo con noi nel mondo che verrà dopo la pandemia?”
La mia prima risposta è: la consapevolezza della responsabilità.
A casa Ahrens si diceva “Quando succede qualcosa domandati sempre: in che modo ho contribuito io a che questa cosa accadesse.”
Sento acutamente la responsabilità di tutta la mia generazione per avervi consegnato il mondo che avete trovato. Sento il peso e l’entusiasmo della sfida che è nelle vostre mani per cambiarlo; che sia migliore o peggiore dipende da voi.
Quel che è certo è che, dopo la pandemia, non torneremo affatto come prima, alla cosiddetta normalità, perché è proprio quella che ha prodotto questa situazione. Indietro non si va.
In questa prospettiva: cosa trovo nelle pagine de La luce è là da porre nello zaino che porterete nel vostro viaggio verso il futuro?
Marta, la vera narratrice, era quasi sorda. Eppure Marta ha ascoltato.
Questa frase si trova nella prima pagina del romanzo.
L’attitudine all’ascolto dell’altro è stata carente nel mondo che stiamo lasciando; è una delle carte vincenti in quello nuovo. Il frastuono delle poche voci che ascoltavano solo se stesse ha soverchiato il sussurro dei moltissimi che compongono la variegata umanità in cui tutti – ricchi della loro diversità – hanno qualcosa da dire e da dare.
Marta trasformava il silenzio della sua sordità in risorsa di conoscenza. Più informazioni raccoglievo sugli altri, più padronanza avevo di me, accettava di non capire e non temeva di domandare, approfondiva attraverso la lettura e l’osservazione, diventando un riferimento per tutti.
Il mio mondo non si è ristretto, anzi, per certi versi mi si sono aperte nuove prospettive. Ho sempre letto molto, moltissimo, e ogni libro, ogni articolo di giornale mi ha dato non soltanto qualcosa che non sapevo, ma anche una diversa interpretazione, un punto di vista che non avevo considerato. Mi sono abituata a riflettere, non tanto sulla mia condizione quanto sulla varietà del mondo, sulle infinite sfaccettature possibili, enfatizzate dal silenzio in cui vivevo.
Fin da ragazzina ho avuto un ruolo speciale nella nostra famiglia: le sorelle e mia madre spesso mi chiedevano consigli perché mi attribuivano saggezza e lucidità maggiori delle loro.
Ascoltando si impara e si cresce, purché ci si tenga lontani da giudizi basati sul presupposto che gli altri devono essere come noi. Ognuno è diverso, e questo è il valore che produce lo scambio. Gli uomini non si misurano con il metro come le stoffe,diceva Albert; e Johanna ascoltava senza giudicare perché non aveva preconcetti e consigliava bene perché aveva saldi princìpi. L’assenza di giudizio, i saldi principi sono i presupposti per non temere i cambiamenti. Ancora un cambiamento, pensava. Ma sapeva già̀ cosa avrebbe fatto.
L’ascolto, il riconoscimento e il rispetto degli altri predispongono alla conoscenza del mondo e all’apertura a ogni apprendimento. Credo che la spinta che ci apre all’esterno sia, prima di tutto, formata dalla coppia curiosità/coraggio.
Johanna – ragazza dell’Ottocento – attraversava da sola l’Europa da Amburgo alla Sicilia, spinta dalla possibilità di realizzare i suoi sogni e, arrivata a Palermo, si mostrava sicura, ma certo era trepidante. In un paese straniero, a migliaia di chilometri dalla sua città, circondata da gente che parlava una lingua che non capiva, stava incontrando lo sconosciuto al quale aveva affidato la sua vita.
Nell’epoca precedente alla pandemia si è banalizzata la conoscenza del mondo. Pacchetti di viaggi preconfezionati offrivano meri spostamenti nella geografia, e la falsa sicurezza che insieme ai viaggiatori si sarebbero spostati anche i modelli di vita. Dappertutto si incontravano gruppi compatti di persone estranee al luogo dove si trovavano, volgarmente incapaci di comprenderne le ricchezze, di apprezzarne le peculiarità, di parlarne la lingua. Come saranno i viaggi quando potremo di nuovo muoverci liberamente?
È necessario che i giovani studino lingue straniere, per Albert era importantissimo. Spingeva i suoi figli a studiare, prima del viaggio, la cultura del posto dove erano diretti. Marta ci racconta: I viaggi che preferivo erano quelli nelle capitali europee. Albert veniva sempre, ci teneva molto. Forse voleva dare ai suoi figli quello che a lui era mancato. Parigi, Venezia, Roma… Albert insisteva perché ci preparassimo a quelle visite. L’avventura del viaggio cominciava con l’organizzazione.
Applicava prima di tutto a se stesso quello che esigeva dai figli. È a questa apertura alla scoperta del grande mondo che va ricondotta la sua modernità, la capacità di produrre innovazione e sviluppo, culturale prima che economico. Albert Ahrens era informato, e conosceva l’economia delle nazioni europee più avanzate perché viaggiava. Inoltre, parlava le lingue: leggeva i giornali stranieri e intratteneva una fitta corrispondenza con persone che come lui vivevano e lavoravano all’estero.
Un altro insegnamento che viene dagli Ahrens è l’importanza di appartenere ai luoghi: villa Ahrens non accoglieva la famiglia ma ne faceva parte. La storia di ciascuno, quindi la storia degli uomini, non riguarda solo le persone ma anche le case, i paesi, i giardini, le piazze.
I luoghi della nostra vita comune non sono mai stati sfondi ma compagni, avevano identità e ci univano come gruppo, come unità multipla dotata di un carattere proprio che non era solo la somma dei caratteri individuali.
E ciascuno riconosceva e rispettava l’anima della casa, ogni angolo dello spazio fisico era un centro della nostra vita. Johanna e la villa finirono per coincidere, e quando la villa non ci fu più lei portò con sé la sostanza impalpabile del suo significato.
Villa Ahrens era piena di gioia e di sicurezza. Come se avesse un’anima sua, trasformava in forza comune le affinità, le analogie, le abitudini, o anche soltanto l’essere lì.
E ha avuto la capacità di regalare ai suoi abitanti una riserva di felicità che è diventata la nostra forza nei momenti più tragici.
Vivevamo come assediati, la villa era il fortino che ci difendeva. Albert, Johanna, Berta, Roberto e io eravamo gli unici avamposti rimasti a proteggere i nostri ricordi e la nostra identità, cercando di essere ancora, nonostante tutto, un riferimento. La villa aveva accolto Berta e il piccolo Roberto in un abbraccio consapevole della loro vita distrutta; proteggeva me da un’esistenza che avrebbe potuto essere molto più difficile; ci dava l’illusione di un punto fermo, non intaccato dalle difficoltà.
Dopo, quando le violenze della Storia hanno tolto agli Ahrens il loro nido, la capacità di appartenere ai luoghi si spostò con loro. Così anche l’appartamento ci sembrava ora una vera casa, ci aveva accolte e aiutate a difendere le cose di maggior valore: i ricordi, la libertà di pensiero, la nostra cultura. Johanna ebbe un moto di gratitudine per le stanze.
Durante la guerra, villa Ahrens fu bombardata ma, se pur in pessime condizioni, rimase in piedi. Né gli uomini né le bombe erano riusciti a distruggere l’anima della casa.
È passato molto tempo, questa casa è stata distrutta ma è stata recuperata. Ha rischiato di scomparire ma è stata salvata. È una casa che ha racchiuso tanti mondi, di affetti, di lavoro e anche di abbandono. Ma la luce è là, e risorge sempre.
Responsabilità individuale, ascolto degli altri, curiosità/coraggio, conoscenza del mondo, appartenenza ai luoghi: lo zaino è pieno da scoppiare.
Quali parole riesco a trovare che vi diano la forza e l’energia di trasformare il peso in leggerezza?
Restare se stessi, restare insieme: così gli Ahrens superano le tragedie che la Storia porta nelle loro vite. Il segreto della loro forza è non tradirsi mai, e in tal modo preservano il legame del gruppo. Le due cose sono inscindibili, ma non rigide: il gruppo ha un’identità propria che non è la somma delle identità singole; si modifica dinamicamente man mano che ciascun componente cambia, a condizione che questo avvenga senza tradire i valori fondamentali, i sogni comuni, gli strumenti per realizzarli.
Non eravamo conformisti e nemmeno anticonformisti, ci piaceva essere noi stessi.
Non c’era differenza tra sogno e progetto.
Quando subimmo le tragedie della storia, il ricordo della felicità diventò così amaro che i nostri caratteri si alterarono. Il rigore mutò in durezza; il rispetto delle regole in rigidità; il sorriso in un’arma di difesa. Nelle difficoltà e nel dolore continuammo comunque a confidare nella solidarietà del gruppo. Questo ha salvato il meglio di noi.
La forza di essere insieme è la più importante eredità che Albert e Johanna ci hanno lasciato ed è il messaggio più chiaro che oggi sono in grado di distillare per le generazioni future.
Siamo in tanti, e ognuno porta con sé il proprio retaggio. Il senso della famiglia è rimasto. Il legame ereditato è diventato un’amicizia che discende da un’affinità. Quando mia madre non ci sarebbe stata più, il compito di tenere vivo questo legame sarebbe passato a noi sorelle e poi ai figli, ai nipoti, chissà per quante generazioni.
Torniamo alla memoria. Alla luce dell’esempio degli Ahrens, la memoria non è un peso ma un elemento costruttivo delle personalità e delle diversità, quindi una forza. Non tanto la conoscenza di quel che è successo nel passato – la memoria deve diventare Storia, scrive Corrado Augias il 27 gennaio su La Repubblica – quanto il modo in cui la memoria entra a fare parte di noi. Sapere, ricordare, preservare, significa avere un bagaglio personale e peculiare, certo profondamente diverso da chi non l’ha.
Forse avremmo voluto dimenticare, ma Johanna non ce lo permetteva, con le sue ricerche, con il suo bisogno di sapere.
Mia madre non rimpiangeva nulla e ricordava tutto.
La memoria ci fa un altro regalo: la fiducia. La storia degli uomini alterna baratri e risalite, il futuro che si realizza è ogni volta una nuova nascita, a condizione di portare con noi i riferimenti e i valori.
Stavamo ritrovando la fiducia nel futuro. I nostri riferimenti erano saldi, i lutti ormai lontani, Johanna era come sempre il nostro sostegno; avevamo di nuovo una casa da amare.
Malgrado i pesanti strascichi della guerra, lo stato d’animo era completamente cambiato. Tutto sembrava più bello, il mondo era nelle mani delle persone di buona volontà.
I nostri giovani si sentivano protagonisti di una nuova e migliore stagione della storia.
Lo zaino è pieno, ma non completo.
Finire di riempirlo è un compito individuale, ciascuno a modo suo, con le cose che ama, con quello che crede importante.
Buon viaggio!
28 gennaio 2021